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sabato 15 marzo 2014

Riflessioni sul mondo di una Ragazza

Si chiamava Kore.
Kore era una ragazzina taciturna, ma molto intelligente. Era figlia di una grecista sopra le righe, che durante una festa di battesimo aveva rimorchiato un poveraccio più giovane di lei. Una specie di Porosa e Penia. Sottinteso, Kore non sapeva nulla di chi quell'uomo fosse. E nemmeno la madre, o almeno così credeva.
Madre che mancava nettamente d'immaginazione, tanto da chiamarla "Ragazza". Nome tanto strampalato quanto difficile da far capire: quando dovette farsi l'abbonamento per l'autobus beccò una vecchia mezza sorda, che scrisse il suo nome in 30 varianti e le fece spendere il triplo.
Ovviamente la madre se la prese con lei.
Kore si riteneva la regina delle scuse. Non per uscire da scuola prima o mollare il ragazzo, no; scuse più serie. Scuse per vivere.
Innanzitutto il ragazzo non ce l'aveva mai avuto. Un po' perché snobbava la metà del genere maschile, un po' perché l'altra metà la snobbava. E anche quando ne aveva la possibilità, tirava fuori le sue care amiche scuse.
Scuse che usava anche per le feste, quando i cugini "No" e  "Non ho voglia" erano occupati o non bastavano.
E quando doveva fare qualcosa di importante, di grande: due minuti prima era al massimo dell'esaltazione, due minuti dopo puff, felicità svanita. Non sapeva nemmeno lei per quale motivo: cadeva in uno stato di depressione mista a sonno, una sorta di catalessi fulminante. Già s'immaginava la scena, si vedeva lì, vestita bene, sorridente, divertita, e al contempo sentiva le sue labbra - nella realtà mica tanto divertite - soffiar fuori un "no grazie" a metà tra il sommesso, l'annoiato e lo scocciato. E poi provava quella lieve pressione all'altezza del petto, quel vago rimpianto... Fino a che non spiaccicava sul suo volto un sorriso, e si piazzava in fronte il cartello "Va tutto bene, domani è un altro bellissimo giorno".
A volte sentiva persino una necessità intrinseca di essere al centro dell'attenzione. Voleva essere pregata. "Dai Kore, fai questo, fai quello, vieni con noi", non che nessuno non la pregasse, anzi. Ma non abbastanza. Non la pregavano; la invitavano ad eventi quasi per dovere, per circostanza. Come per dire "Non sei fondamentale, con te o senza di te si va comunque".  Riteneva che fosse un'orribile abitudine mondiale, quella del trovare sempre qualcosa o qualcuno in tua sostituzione. Usare le sue amate scuse in modo così futile. O forse accadeva solo a lei, ma per consolarsi s'illudeva fosse vizio comune e diffuso.
Un'altra cosa che odiava era quando smascheravano le sue intenzioni. Quando voleva farsi pregare e qualcuno le chiedeva "Ma ti vuoi far pregare?" È ovvio che è così cerebroleso! Ma tu non lo devi far notare!
Era convinta che il mondo si reggesse su cose non dette e cose da non dire. Una volta che tutte quelle cose verranno allo scoperto il mondo imploderà, pensava al parco, vedendo due amiche che litigavano su chi delle due fosse più bella. Era sottinteso che entrambe pensassero di essere le più belle, ma un rapporto di amicizia era basato per il 50% su verità e per il 50% su menzogne, malgrado molti moralisti tentassero di diffondere una teoria opposta. Ed era sottinteso che squilibrare l'amicizia con troppa sincerità avrebbe portato ad un crollo improvviso. Colpa della natura puramente ipocrita del mondo.
Nasciamo veri. Poi sta a noi decidere se morire bugiardi o uccisi dai bugiardi.
Le faceva ridere il fatto che persino la celebre Bocca della Verità, con un nome così altisonante, in origine non fosse altro che un tombino dell'antica Roma. Anche quella una menzogna.
Il caro vecchio Platone aveva ragione: la verità non si raggiunge mai. E anche Socrate (che guarda caso è scritto proprio dallo stesso Platone), quando diceva che la verità non può essere una sola: c'è la mia, c'è la tua, c'è la sua. Mischiate possiamo arrivare ad una verità a noi comune. Ma di certo non sarà condivisa da tutti. Insomma, la verità non esiste, punto.
Kore camminava per strada tentando di comprendere le persone. Era laureata in riconoscimento di sorrisi finti, dietro ai quali ci stavano stress, pene d'amore, bugie, sofferenze, incomprensioni. Se, come diceva Platone, "La filosofia è anche riconoscere che siamo feriti fin dalla nascita" (vedi l'ombelico), lei era una filosofa incompresa. Ironia della sorte, gli altri non lo erano. Alla fine lei riconosceva tutti, ma nessuno lei.
Al contrario della madre amava la moda. Le piaceva travestirsi, diventare un giorno una punk, un giorno una brava ragazza, un giorno una manager. I travestimenti, diceva a chi apprezzava il suo stile - ovvero il non avere stile -, aiutano l'anima. Una camicia fa cambiare l'umore più velocemente della sindrome premestruale. E aiutano a nascondersi, proprio come un sorriso. Ma quest'ultima affermazione la teneva per sé.
Amava imparare. Pensava che l'apprendi mento fosse fondamentale, ma fosse inutile far apprendere cose che non piacevano - o tentare di far piacere cose da apprendere. Ognuno ha un destino segnato, perché perdere tempo a tentare di deviarlo in tutti i modi?
E credeva che per rendere il destino migliore bisognava migliorare quello altrui. Occhio per occhio, dente per dente: prima o poi sarebbe (forse, si spera) toccato a lei.
Quindi sorrideva a tutti.  Soprattutto a chi aveva un sorriso finto incollato al posto della bocca, per veder emergere quello vero.
E faceva "Buone Azioni". Passava i compiti, aiutava, veniva incontro. Chissenefrega se poi nessuno l'aiutava, lei aveva la coscienza pulita.
Era altresì convinta di stare sprecando inutilmente il suo tempo. Che mentre stava ragionando avrebbe potuto fare qualcosa di produttivo. Che se avesse scritto tutte le sue riflessioni magari avrebbe guadagnato tanto denaro da poter vivere di rendita, invece di gettarle al vento come carta straccia.
E che Ligabue e Petrarca avevano scritto le sorti dell'essere umano medio concentrate in una frase. Il primo con "Il meglio deve ancora venire"; il secondo, quasi in antitesi, con "Et viaggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio".

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