. . . All you life, you were only waiting for this moment to be Free . . . * Nulla enim culpa est in somnis.

lunedì 30 settembre 2013

Ricordi #2 / Don Franco

Ricordo vagamente quel giorno.
Avrò avuto nove anni, e a Messa m'annoiavo. O almeno, così era quando abitavamo nella vecchia casa.
Quel giorno io, il mio fratellino e Papà andammo a vedere la nuova chiesa. Vidi subito quell'uomo dall'aspetto dolce e bonario venirci incontro, stringere la mano a Papà, salutare noi bimbi. Ci chiese: "Volete fare i chierichetti?" Già questa era una rivoluzione, solitamente le parrocchie li 'istituzionalizzano'. Simo non volle, io accettai.
E mi divertii un sacco. Sebbene non potessi prendere la particola, perché troppo piccola, indossai la candida tunichetta bordata d'oro, lessi le preghiere nel librone sollevato sul tavolone imbandito, alzai la coppa del vino al cielo durante la benedizione e m'inchinai assieme agli altri bambini di fronte all'altare. Poi corsi in sacrestia per togliere la veste... E rubare le particole. Non santificate, ovviamente!
Due anni dopo Don Franco presenziò la cerimonia della mia prima comunione. Ricordo la battuta di un mio compagno al sapore della particola: "Sa di patatina senza sale!" Ancora ora mi viene da ridere. Tanto per cambiare, rendendo onore alla mia nota goffaggine, inciampai sulla sua tunica e mi salvò prima di fare una figura peggiore di quella che - comunque - feci.
Passarono ancora gli anni. Simo mi raggiunse sull'altare - io la coscienziosa, lui il disturbatore. Don Franco mi diceva: "Tieni a bada i più piccoli, tu che sei grande!", ma puntualmente era il primo che non riusciva a sgridarli. Tutti stretti stretti, spintonando per leggere la preghiera, correndo giù per l'altare per prendere le particole dal tavolino poco più in basso, litigando per sorreggere la tovaglietta della comunione, stringendo la mano del vicino per quella pace che romperanno cinque minuti dopo, cantando a squarciagola 'Alleluia' e bisbigliando le parole che non si sanno.
Crebbi, crebbi, crebbi. Smisi di fare la chierichetta, smise anche Simo. Ma di andare a Messa, quello mai.
Iniziai a svegliarmi anche da sola per raggiungere la chiesetta di San Pio X, persino svenendo una volta perché nella foga del ritardo avevo dimenticato la colazione. Non scorderò mai Don Franco che diceva al microfono: "Un bell'applauso per Silvia!", mentre una barella mi portava all'ospedale per fare accertamenti sulla mia testolina, i miei genitori in pigiama al seguito. Era un San Valentino. Bell'amore il mio.
Molte volte lessi come i 'Grandi', impappinandomi davanti a nomi come Melchisedec.
Quando mia nonna morì, Don Franco le diede l'estrema unzione e celebrò il funerale. Quando parlarono, fu una delle ultime volte che mia nonna fu veramente felice, e gliene sarò per sempre grata.
Don Franco ha allevato centinaia di cristiani, rivelandoci la vera natura di Gesù e facendoci crescere nel nome e nell'amicizia di Dio. Le sue messe erano un clima di gioia, amore e felicità. Ha dato così tanto, volendo così poco in cambio.
Ma, come potete ben immaginare, a tutto c'è un 'ma', specialmente se si parla al passato.
Ieri mattina Don Franco ha celebrato la sua ultima Messa nella nostra piccola chiesetta dopo 22 anni di intensa predicazione. Mai in vita mia ho visto così tanta gente a San Pio X, forse nemmeno per Natale. Tutti per lui, per una volta, e non solo lui per tutti.
Quante lacrime... Lo ammetto, ho peccato, non ho detto il Credo. Ahimé, non ne avevo voce. Rivedere tante facce conosciute, più grandi di qualche anno, o forse solo di qualche centimentro. Ragazzi e ragazze comparse al fianco di conoscenti un tempo bimbi, che magari ora hanno a loro volta pargoletti con la tunica sull'altare. Trucco dove c'erano brufoli. Brufoli dove c'era pelle di pesca.
Si cresce, il tempo passa, è tempo di arrivederci. Bisogna andare avanti, da soli se necessario.
Don Franco, buona fortuna. La tua comunità crescerà, ancora più grande e forte, seguendo i precetti di Dio che tu ci hai insegnato con tanto amore. Verremo a trovarti, starne certo. Dopotutto, non l'hai detta tu la frase chiave di tutto il tuo insegnamento?
I care.
Silvia

giovedì 19 settembre 2013

Gioia di vivere

Un fiocco di neve cadde sul naso di Gioia. Poi un altro, poi un altro.
Tanti fiocchi di neve cadevano dal cielo, Gioia tentava di prenderli, ma non ci riusciva. Frustrata, li vedeva sciogliersi sul marciapiede d'asfalto caldo, senza attecchire al suolo.
"Papà, quanto ci impiegheranno a fare le montagnole?"
"Poco, tesoro" rispose lui. 
S'avviarono verso il parco. Non faceva freddo, quando nevica non fa mai freddo, per questo Gioia amava tanto la neve. Erano in inverno, la sua stagione preferita, e non faceva freddo.
Sul vialetto iniziava ad esserci un tappetino candido simile al velluto. Suo padre si sedette su una panchina, lei al suo fianco. Le sistemò meglio il berretto di lana, le diede sul naso un bacino lieve quanto il fiocco precedente. Poi osservarono assieme i bimbi che giocavano.
Quanto avrebbe voluto giocare anche lei! "Papà," s'esaltava, "guarda quanto va veloce sullo scivolo quel bambino! E quella bambina, come vola alto sull'altalena! Guarda, guarda il piccolo nel passeggino! Mi somiglia!" E rideva. Era una cosa bella per lei. Tuttavia, ogni volta che osservavano gli altri bimbi il padre si rattristava.
Il suo compito, si diceva sempre Gioia, era quello di tirarlo su d'umore.
"Andiamo al laghetto, Papà, ti prego!"
Il laghetto era più tranquillo, e non faceva abbastanza freddo per ghiacciarlo. Le paperelle, infreddolite, a malapena s'intravedevano; Gioia lanciava comunque un po' di pane per i piccoli anatroccoli, prima o poi sarebbero uscite, e avrebbero avuto fame. In più, la favola del brutto anatroccolo era la sua preferita, quindi si sentiva in dovere di nutrire i piccoli dello stagno, per fare in modo che anche il più brutto di loro potesse diventare un cigno stupendo.
Chissà se lo sarebbe diventata pure lei.
Tornarono a casa quando la neve era divenuta troppo alta per lei. Salirono con l'ascensore, si infilò un pigiama caldo e si pose un plaid di Hello Kitty sulle ginocchia.
Aiutò la mamma a cucinare: quel giorno c'era nel menù la cotoletta con le patate. Le piaceva sbucciarle, la tranquillizzava.
Mangiarono raccontandosi le reciproche giornate, dunque si accomodarono davanti alla Tv a vedere un bel film. Quando finì, la mamma l'aiutò a lavarsi i piedini, le mise i calzini e l'accompagnò a letto. Gioia si sollevò facendo pressione sui braccioli della sedia con le braccia magre, la madre l'aiutò a passare sul letto, le spostò le gambe e le rimboccò le coperte. Le baciò la fronte e spense la luce.
Nel buio, la piccola Gioia iniziò a pregare Gesù per averle dato un'altra splendida giornata, e chiese che ce ne fossero delle altre, che i piccoli anatroccoli sopravvivessero al freddo e che gli altri bambini avessero sempre il sorriso sulle labbra. Infine chiese che la sua mamma e il suo papà non soffrissero per quello che non aveva, ma fossero felici per quello che aveva.
Sentiva la presenza di Starky, la sua sedia a rotelle, alla sua sinistra. La carezzò e diede la buonanotte anche a lei. 
S'addormentò.

Come una moderna favola esopica, "O lògos dèloi..." (la favola insegna) che anche se la vita sembra fare schifo, bisogna sempre apprezzarne la presenza, e accogliere ogni cosa buona che ci circonda.
Ivy

venerdì 13 settembre 2013

Ansia

Sale sale sale, poi scende.
Monta da sola, come la panna.
Inizi a sudare, a tremare, ti viene da piangere, ma non hai lacrime.
Vorresti urlare, ma non hai voce.
Ti senti in trappola. Ma dove scappare? Non ci sono vie d'uscita.
Magari è una piega sbagliata degli eventi, un imprevisto improvviso, un piede sbucato dal nulla che ti fa lo sgambetto, o forse quella che sgambetta via tra le tue gambe è la vita.
Ti nascondi dietro le parole, ti sfoghi con amici, parenti, sconosciuti. Che poi 'sfogarsi' non basta, perché si sa, la foga è del momento, poi passa.
Ma lei non passa tanto facilmente.
Escono brufoli ovunque, come i conati di vomito, alternati a fame, sonno, energia, solitudine, serenità, paura, paura anche di uscire di casa, di prendere l'autobus, di mangiare, di parlare con qualcuno, di dormire, di non svegliarsi in tempo.
Inizi una cosa e te ne penti. La molli e ti senti in colpa. 
Non ti senti te stessa. Ma chi sei in realtà? Non lo sai nemmeno tu, come fanno a saperlo gli altri?
Alterni momenti in cui vorresti ribellarti ad altri in cui preferisci sottometterti alla vita.
Momenti in cui hai bisogno di tenerezza ad altri in cui odi anche la voce delle persone a cui vuoi bene.
Talvolta vorresti chiuderti in una stanza buia, con le cuffiette nelle orecchie e gli occhi chiusi. Altre vorresti correre tra i prati urlando: "Heidi, chi è più brava adesso?"
Fa male pensare, fa male riflettere. Volare via con la fantasia una volta era immergersi in nuovi mondi, adesso è immergersi in un'utopia, illudersi di poter avere ciò che si ha, essere ciò che non si è. 
Ogni piccola cosa fa crollare il castello di carte nella tua mente. Uno sguardo può essere peggio di un tifone. Una parola spazzare via le fondamenta della casa più solida.
Ma la cosa peggiore non è il dentro. E' il fuori.
Il sorriso falso che condisce le tue giornate. Il lamentarsi delle nuvole nel cielo, anziché urlare che le peggiori sono nel petto, di fronte al cuore. Il fare un bel gesto, perché se vedi un sorriso altrui uno spontaneo ti spunterà di certo. E di conseguenza, il vivere per far felici gli altri, per comprare la tua felicità e impacchettarla col regalino per l'amichetto di turno.
Desiderare la solitudine. E appena sei sola, volere qualcuno accanto a te. E quando arriva, preferivi stare per conto tuo.
Non riesci a concentrarti, t'alzi, cammini, bevi un caffè, ti siedi, concentrazione, mezz'ora, persa, ti rialzi, ricammini, yogurt, ti risiedi, ti riconcentri, ti riperdi, fino a che a forza di camminare hai scavato un solco nel pavimento e perso dieci chili. E non hai risolto nulla.
Gioisci se qualcuno si sfoga con te. Almeno hai altri problemi a cui pensare.
Hai caldo, ti spogli, t'infreddolisci, ti copri, ma ancora caldo, freddo, caldo, freddo, fino alla pazzia.
Pazzia. Forse questa è la soluzione, è il vero scopo della tua mente, si diverte a vederti soffrire, a vederti contorta su te stessa per combattere contro la tua stessa pazzia.
O forse è depressione. Prova coi clown, forse funzionano.
Adolescenza? Naah, acqua passata.
Malinconia? Oh cielo, sono vecchia e sola... Che pena.
Allora cosa? Cosa è?
Ansia.
Per il futuro, il presente, il passato. Per le stupidate quotidiane, per le cose importanti, per le sfighe occasionali ma sempre puntuali. Per non vedere mai la luce limpida, ma sempre offuscata, coperta, nascosta. Per nostalgia, per stress, per routine, per malinconia, per pazzia, e perché no, anche per depressione. Per Ansia.
Il 90% di voi lettori a questo punto penserà che mi ci vuole uno bravo che mi curi. Il restante 10% mi avrà già scritto nei commenti il numero. Grazie di cuore, vi contatteremo al più presto per eventuali chiarimenti.
Gente, sappiatelo, specialmente voi che siete in terza media, si voi, piccolini lì in fondo, che vi sentite tanto grandi e tanto fighi e ancora fate i temi in classe su come avete trascorso le vacanze. Proprio voi.
Questo è l'effetto Liceo Classico. Vedete un po' voi.
Ivy, andata e sola come un cane (sigh)

martedì 10 settembre 2013

Giulietta se può impiccà!

Buondì cari lettori e care lettrici, come state? Perdonatemi l'assenza, ma dovevo recuperare i compiti :P Domani si ricomincia!
Allora eccovi un'avventura nella bella Verona... Sognate, sognate...

Giulia si fermò davanti a quell'insegna. Da anni sognava quel viaggio, e proprio quando era arrivata a destinazione era un po' delusa. Fosse stata lei il sindaco di Verona avrebbe tappezzato la città di insegne, indicazioni, fotografie di Shakespeare e della sua creatura. Invece lei aveva dovuto chiedere indicazioni, una volta scesa dal bus. Ma forse era solo colpa del suo orientamento.
Un respiro profondo. Le parole scavate nella pietra si scolpirono nella sua mente ancor prima di leggerle.
Queste furono le case dei Capuleti donde uscì la Giulietta per cui tanto piansero i cuori \gentili e i poeti cantarono.
Che dire? Pura poesia. Si lasciò alle spalle il negozio roseo e infiocchettato con la scritta 'Shakespeare' sulla tenda ed entrò nell'arcata di pietre.
Ai lati, tanti giovani innamorati avevano lasciato le loro scritte su due grandi pannelli un tempo bianchi. I più furbi, per guadagnare spazio, avevano aggiunto cerotti e pezzi di carta sopra alle scritte altrui. Dopo aver fotografato le più belle, Giulia proseguì.
Di fronte a lei, sulla sinistra, un centinaio di turisti bloccavano l'ingresso al negozio di souvenir. Più avanti una parete colma di lucchetti fucsia e oro faceva sembrare il Cuore di Verona  Ponte Milvio. Accanto, la statua di bronzo raffigurante la sua bella eroina risaltava grazie al seno consumato dalle mille e più mani giornaliere, fino a dorarne la superficie. Dopo aver fatto la foto di rito - combattendo contro una coppia di thailandesi e una famiglia di indiani -, finalmente alzò lo sguardo, lentamente, assaporando il momento... E lo vide.
Il Balcone più romantico della storia. Scattò due o tre foto, poi corse alla cassa ed entrò nell'elegante palazzo medievale.
S'incantò davanti agli affreschi relativi ai due amanti fino a rischiare di sbriciolarli con gli occhi. Tese le mani per toccare le ceramiche veronesi, bloccandosi a pochi centimetri; chiuse gli occhi e s'immaginò immersa tra le pieghe del vestito di velluto, distesa su di un largo tappeto davanti al camino...
- Amò, ma quanto ce stai in sto posto? E' umido mannaggia a te, mi fanno male i polpacci! -
Giulia alzò gli occhi al cielo. Perché aveva accettato che suo marito Romano venisse con lei?
Perché subito dopo ci sarebbe stata la partita Hellas Verona - Milan. E perché era la prima e l'ultima occasione per venire nella città degli sfortunati amanti.
- Taci burino, o te ce mollo e addio partita! -
L'uomo si zittì.
Giulia girò ancora per un'oretta. Si fece scattare dal marito una foto sul Balcone, e da un turista una foto sul Balcone col marito - che, ovviamente, aveva una faccia così annoiata che la donna di Caltanissetta chiese se piangeva per commozione o tristezza.
Prima d'uscire, si fermò davanti alla cassetta delle lettere del Club di Giulietta. La sua nipotina c'era stata qualche anno prima, e il Club aveva risposto alla sua letterina via e-mail. Perché non puoi farlo anche tu?, si disse. E scrisse dei problemi col marito, dell'amore per la tragedia shakespeariana, dell'idea di mollare tutto e trasferirsi a Verona come la sua quasi-omonima. La rilesse, pianse e la imbucò.
Uscì dal palazzo, concedendosi una sosta al negozietto Romeo <3 Giulietta - dove, stranamente, il marito le regalò una tazza e un portachiavi con un cuore a metà. La restante metà la tenne lui. Ovviamente si lamentò del prezzo. - Che se potesse impiccà Giulietta e quell'altro piagnone del suo marito, che nun sa manco tenerse bbona la vita e me fa spendere milioni pe fa contenta mi moglie! -
Dopo aver scritto il loro nome su un lucchetto, che attaccarono su un pozzo in miniatura dietro la statua, s'incamminarono verso Piazza delle Erbe. Romano si comprò un panino degno di Homer Simpson, lei una pizzetta morbida e calda. Fecero un giro per le bancarelle sotto i portici, promosse da un'associazione chiamata (guarda che caso) Club di Giulietta. Romano si comprò l'orologio di vetro dipinto con lo stemma del Milan, guadagnandosi un'occhiata in cagnesco da parte del venditore.
Camminarono tra i negozi di lusso. Giulia si fermò parecchie volte, tanto che Romano, appena vide che l'anello con brillante che le piaceva costava più di 60mila euro, la prese per un braccio e la trascinò via di peso. Infine, dopo che Giulia aveva sbavato tutte le vetrine di Louis Vuitton, sbucarono nella piazza dell'Arena. Foto, foto, foto, e via. 
Giulia si fermò sulla scalinata di quello che sembrava un museo a piagnucolare. Davanti a lei, addetti alla sicurezza trasportavano delicatamente cupole di vetro e statue gigantesche nell'Arena, pronte per la tragedia "Romeo e Giulietta" recitata qualche sera dopo. E lei non poteva andarci! Romano tentò di tirarla su d'umore facendole la foto davanti alla scenografia, alla fine però sbottò: - Nun c'ha fazz cchiù, me ne vado! Se vuoi venire vieni, ma senza sta' a piagne!
E lei lo seguì docilmente, chiedendo addirittura a un edicolante quale fosse l'autobus che portava al Campo.
Salirono sul 13. Ragazzetti con la maglia dell'Hellas andavano e venivano... Grazie al cielo Giulia aveva convinto Romano a non mettersi la maglia rossonera prima di entrare allo Stadio.
Mezz'ora dopo non erano ancora arrivati. Eppure Google Maps diceva che Stadio e Arena erano pressoché attaccate! Giulia attraversò l'autobus ormai vuoto fino al conducente. - Mi scusi, ma questo autobus ha capolinea al Campo? -
- Dove l'è salita signora? - chiese l'autista.
- All'Arena. -
- Eeh signorina, l'ha sbaglià el bus. L'era quello che andava nella direzione opposta. Questo ha capolinea ora, e riparte tra dieci-dodese minuti. Mezz'ora e saremo arrivati. -
Più di un'ora di autobus dopo, giunsero a Piazzale Olimpia, Romano che imprecava poiché sarebbe entrato in ritardo. Lei, invece, avrebbe preso il treno per Roma subito. 
Si salutarono. Giulia si raccomando che non mettesse ancora la maglia, i tifosi sono pericolosi, bisbigliava. Poteva benissimo metterla all'interno. Dunque s'avviò lontano da quel posto.
Nei pressi dello Stadio vide una graziosa gelateria. Massì, un gelato me lo magno, si disse. Prese un cono fragola e limone ed uscì. Sfiga volle che, nemmeno due passi, le cadde di mano su un motorino poco distante.
- Le mortacci sua! Se me vede il proprietario me fa nera! - Tirò fuori un fazzolettino e pulì alla bell'è meglio il sellino di pelle. Poi tornò indietro alla gelateria. 
- Mi scusi, mi sento una bambina, ma m'è caduto! Me ne farebbe un altro uguale? -
Tentò di pagarlo, ma la donnina non volle. 
S'incamminò senza una meta, leccando il suo gelato soddisfatta. Quasi si strozzò quando passò accanto al motorino incriminato, dove un signore sulla cinquantina, panza de fuori e sciarpa dell'Hellas legata sulla fronte pelata, stava buttando giù i santi del Paradiso e proclamando vendetta. Proseguì col gelato nascosto dietro la schiena.
Stava finalmente rilassandosi, quando... Buoi. No, tori. O peggio, gnu inferociti. Le venne in mente la scena de Il Re Leone, quando Simba si vede arrivare addosso tutti quegli animali impazziti. Ma quelli non erano animali. Erano peggio degli animali. Erano tifosi. 
Rimase immobile, col suo cono nella mano appiccicaticcia a causa della fragola che lentamente si scioglieva. Gli uomini le passavano accanto, qualcuno la spintonava per sbaglio, il petto nudo e l'alito alla birra. Correvano ridendo, come se fosse una cosa normale.
Si dissiparono come nebbia. Ricominciò a camminare, mezza scioccata, ma giunse un'altra orda inferocita. Stavolta si spostò di lato. Basta gente, basta!
Uno di loro si staccò dal gruppo e andò in suo soccorso. Sarebbe stato un bell'uomo, se non puzzasse d'alcol da morire.
- Scignorina, coscia ci fa lei qui, con tutti quescti nerboruti che quasci la travolgono, eh? -
- Mi scusi, ma cosa è successo? -
L'uomo si fece una grassa risata, tossì e replicò: - Scchappiamo dalla poliscia, scignorina. E' coscì divertente! Loro coi manganelli e noi con le nosctre pansce tatuate di blu e giallo! -
In quel mentre un bicchiere di birra gli cadde sulla zucca. Si girò confuso, e vide Romano ad un palmo dal naso.
- Giù le mani da mi moglie, ubriacone, o te spezzo le ossa tanto che tu moglie ti dovrà ricomporre con l'Allegro Chirurgo, ce semo capiti? - Gli mollò un pugno sul naso. L'uomo rispose con un traballante calcio. Se le diedero di santa ragione, la folla che incitava il tifoso, Giulia che piagnucolava, le mani sugli occhi per non vedere. Quando arrivò la polizia però si fermarono, correndo uno in una direzione e l'altro nell'altra. 
Il gelato era di nuovo a terra, ma lo stomaco le si era chiuso. Chiese all'agente dove fosse la fermata per la stazione.
- Non so se passa signora, ma è quella lì. - Indicò una banchina qualche metro più avanti. Lei ringraziò e s'avviò caracollando.
Si sedette su un masso. Che giornata. Sognava qualche minuto di tranquillità come un assetato nel deserto. Tirò fuori la sua vecchia copia di Romeo e Giulietta e iniziò a leggere per calmarsi.
Dieci minuti dopo giunsero cinque ragazze, quattro vestite normalmente, la quinta con un reggiseno di noci di cocco, una panciera color carne e degli occhiali extralarge da clown fucsia. Tre reggevano un cesto. La quarta, che reggeva un cartello di cartone, chiese: - Signora, vuole i biscotti della Sposa? Offerta libera, minimo un euro! -
Un addio al nubilato. Il suo era stato tanti anni fa che nemmeno se lo ricordava. Forse una cena con le amiche.
- Ma si, certo! - Prese il borsellino, tese due euro, e si bloccò. La forma dei biscotti... Beh, era inconfondibile.
- Signora, lei ha fatto la faccia più strana di tutte! Gliene regaliamo un terzo! - e le misero in mano tre biscotti.
Beh, che dire... Tra due caschi di banane, nel cesto, c'erano tanti piccoli organi maschili a forma di biscotto.
Giulia, che solitamente non toccava certe cose, era bordeaux. 
- Signora, le assicuro che sono buoni! Io ne sto facendo scorta, altrimenti dopo, con la fede al dito, mi sembrerebbe di tradire mio marito...! - Salutarono e se ne andarono.
Ma che idee strampalate, pensò. 
Per consolarsi - e perché, diamine, c'aveva na fame! - ne addentò uno. Mica male però. Un signore che passava di lì la guardò sconcertato. All'inizio Giulia non collegò, poi arrossì violentemente, incartando il rimanente e ficcandolo in borsa. Nascose il viso dietro al libro.
Sentì le formazioni, i 'buu' e le incitazioni, il fischio d'inizio. Dell'autobus nemmeno l'ombra.
S'alzò e andò alla banchina. Il signore di prima sostava appoggiato al vetro, facendo finta di non vederla. Quindi chiese ad un uomo di carnagione scura.
- Mi scusi, passa l'autobus? -
- Numero 13 - rispose l'uomo.
- Si, ma arriva? - 
- Alle cinque e minuti trentacinque. -
- Nel senso, giunge fino a qui? - Si stava spazientando.
- Aspetto pure io. - 
- Grazie, arrivederci! - rispose tornando verso il masso. Sentì l'uomo rispondere: - Forse ritardo. -
Al diavolo, pensò.
Tentò di chiamare Romano, ma non rispose. Le inviò un sms: - Nun c'è campo, stà bbona e tornatene a casa! - 
Non c'è campo al campo. Che cavolata. Al diavolo pure tu.
Finalmente, con un'ora e quaranta di ritardo, arrivò il 13. Alla stazione corse verso i bagni. Che schifezza, si doveva pagare 0,80 € per fare pipì! Si mise d'accordo con una suora, e con la stessa somma entrarono di corsa insieme. Peccato che dopo aver fatto i loro comodi, tentando di uscire, non si aprirono le porte fino a che non giunsero due carabinieri ad aprire manualmente. E fecero loro una multa di 25 € ciascuno.
Basta Verona!, si disse Giulia. Il suo sogno si stava trasformando in un incubo. In quel momento amava Roma come non mai. Fece appena in tempo a prendere il treno, si buttò su un sedile e s'addormentò fino a che non arrivò a casa. Chiamò un taxi - che le rubò altri 50 € - e, giunta a casa, dopo una doccia ristoratrice, s'addormentò di nuovo.
Il mattino dopo la svegliarono delle urla inferocite. In un primo momento pensò di essere ancora nel suo incubo, coi tifosi che la travolgevano, poi capì che i tifosi in confronto erano persone tranquille.
Romano aveva trovato i biscotti.

Che ne pensate? Commentate, e... Fatemi un grosso in bocca al lupo! ;D
Ivy